Il periodo chiamato “Rinascimento”, che va dalla seconda metà del XV secolo alla metà del XVI secolo– finisce con il concilio di Trento (1545-1563) e la Controriforma – si tratta, secondo Sapegno, “della fase di maturazione e di conclusione di un processo complesso che affonda le sue radici nel movimento umanista, e vede il suo risultato maggiore nel consolidamento di un patrimonio culturale comune agli intellettuali della penisola” (2011, p. 21). Questo “risveglio” culturale si è constatato anche negli altri popoli europei, ma ha la sua base nello sviluppo economico delle città più importanti della penisola italiana di quel momento (Venezia, Roma, Genova, Milano e, principalmente, Firenze). Burckhardt si riferisce agli Italiani come quelli che “prima di ogni altro popolo, si trasformarono in uomini moderni e meritarono per questo di esser detti i figli primogeniti della presente Europa” (1984, p.125). Queste città italiane hanno visto la fioritura di una grande produzione di arte, letteratura e musica che hanno fatto meritare loro la massima influenza culturale sul resto dell’Europa. Per questa ragione, sono diventate il punto di arrivo obbligatorio per gli studenti di tutta Europa che volessero trovare grandi maestri della cultura.
In questo periodo si susseguono grandi cambiamenti nella scena europea. Il perfezionamento del processo di stampa a caratteri mobili, verso la metà del secolo XIV, costituisce un importante fattore nel cambiamento del pubblico lettore che si amplia ai colti non specializzati e cominciano ad apparire anche le donne (SPEGNO, 2011, p.8). Nel 1492, Cristoforo Colombo sbarca in America e pochi anni dopo, nel 1494, il re francese Carlo VIII invade la penisola italiana e destabilizza l’equilibrio politico nella regione (idem, p.6).
Davanti a questo scenario, all’inizio del cinquecento gli intelletuali della penisola che avevano condiviso la pratica e la disciplina del nuovo latino umanistico erano in cerca di una lingua più adatta ai tempi. Si era accesa la polemica su quale potesse essere la migliore lingua letteraria che venga a unficare le pratiche di scrittura. La proposta vincente fu quella di Pietro Bembo nelle Prose della Volgar Lingua.
Bembo (1470 – 1547) fu un cardinale, umanista e uomo di lettere, nato a Venezia in una famiglia appartenente alla classe dirigente. Nei primi anni del Cinquecento lavora con Aldo Manunzio, uno dei più grandi editori di quel tempo, collaborando con lui sulle nuove edizioni delle opere di Dante e Petrarca. Nel 1525 arriva a formulare la proposta di usare come lingua letteraria il toscano del Trecento.
Nei seguenti paragrafi svilupperemo gli aspetti centrali del modello di lingua proposto da Bembo nelle sue Prose della Volgar Lingua. Il lavoro è organizzato in questo modo: Inizialmente, eseguiremo un breve percorso temporale sulla storia della lingua italiana. A seguire, affrontaremo le ragioni che presenta Bembo in favore della lingua toscana letteraria di Petrarcha e Boccacio e l’esclusione dell’opera di Dante come modello.
La lingua che viene chiamata “italiana”, lingua ufficiale dello Stato italiano, si è stabilita e diffusa insieme alla nascita di quello Stato: l’uso dell’italiano come lingua nazionale viene consolidato dopo l’Unità d’Italia, a partire del lavoro di Manzoni che riprende la lingua di Dante nella sua opera I Promessi Sposi (1827), testo che sarà imposto come base dell’educazione italiana (per saperne di più sulla storia della lingua nell’Italia unita vedere De Mauro (1963)). Esiste, pertanto, una discussione sull’inizio della lingua nella tradizione italiana, giacché la storica frammentazione politica e culturale della penisola italiana ha favorito la frammentazione linguistica. In questo paragrafo faremo un breve percorso su alcuni momenti della storia della lingua italiana, a modo di contestualizzare la riforma bembiana.
L’italiano ha le sue radici in una varietà linguistica sorta dal latino nella penisola italica del primo millenio d.C.: il toscano, più esattamente il tipo di toscano parlato a Firenze. I primi testi di una certa importanza letteraria in questa lingua sono apparsi nel secolo XIII. Albanese & Albanese (1986) spiegano che, prima di questo, il volgare si usava nelle scritture di carattere prevalentemente pratico. Il testo più antico trovato in volgare è un indovinello veronese del secolo IX, scoperto nel 1924 da Luigi Schiaparelli in un codice della Biblioteca Capitolare di Verona (ALBANESE & ALBANESE, 1986, p.4).
Albanse&Albanese segnalano che Dante Alighieri (1265 – 1321) fu il primo a sollevare il problema di utilizzare il volgare a scopi puramente letterari (1986, p.5). Dante scrive la Divina Commedia, prima testimonianza di un’opera completamente “organica” in volgare (vale a dire in lingua fiorentina) e fa uno scritto teorico in latino, De Volgari Eloquentia (1303-1305), dove pubblica le sue idee sulla lingua volgare. In questo testo, Dante propone una distinzione fra “lingua volgare” e “grammatica”: La prima viene definita come il linguaggio che si apprende senza norme; la seconda è il linguaggio letterario, cioè il latino che ha ormai un rigido sistema grammaticale e si impara con lo studio. Le opere di Dante gli hanno permesso di essere nominato il “padre della lingua italiana”.
Nei primi decenni del secolo XVI avvennero accese dispute tra gli intellettuali dell’epoca per fissare il lessico e la grammatica di una lingua unica per tutti gli scrittori d’Italia (idem, p.8). Perrotta, nel suo testo “Venezia capitale dell’editora” (2011), elenca tre ragioni che rendono “urgente” trovare una lingua comune per gli intellettuali dell’epoca: Per prima cosa, c’è un motivo di ordine storico-politico, imposto dall’emergenza della crisi italiana che abbiamo segnalato: la presenza dominante degli stranieri in alcune delle corti più importanti della penisola conduce gli intellettuali a fermarsi sulla tradizione e alla lingua che tale tradizione ha consacrato. Secondo Perrota, “la mancanza di una lingua comune appare come un segno dell’effettiva mancanza di unità degli italiani” (2011, p.124).
In secondo luogo, è l’idea stessa di tradizione umanistica che privilegia il patrimonio dei classici, a offrire modelli certi e stabili nel tempo, oltre che un terreno comune, d’identificazione e di comunicazione, per tutti gli intellettuali. Finalmente, va tenuta presente la particolarità della situazione dei parlanti in Italia: da un lato i contesti culturali e politici sono sempre più differenziati; dall’altro è radicata l’abitudine a parlare una lingua e scrivere, leggere e fare cultura in un’altra.
D’accordo con Devoto (1972), ci sono stati quattro principi sui quali si sono evolute le discussioni: I) Si discusse sulla superiorità del latino o del volgare in base all’ambito in quale potevano essere validamente impiegate. II) Un secondo criterio era quello del pregio intrinseco. Leon Battista Alberti[1] aveva sostenuto che la perfezione di una lingua sta nel suo uso. III) Il terzo punto di discussione aveva a vedere con il pregiudizio che l’italiano fosse una “corruzione” del latino. In questo aspetto, Benedetto Varchi sostenne che il volgare non era una corruzione, ma una lingua nuova. IV) L’ultimo criterio era quello della regolarità della lingua: il latino era fermo, mentre il volgare era una lingua mutevole, in uso.
La proposta vincente e che rimase salda per secoli fu, come abbiamo anticipato, quella di Pietro Bembo nelle sue Prose della Volgar Lingua, pubblicate nel 1525. Come vedremo nel prossimo paragrafo, Bembo afferma l’eccellenza del fiorentino letterario su tutti gli altri volgari. Il suo principio era quello d’imitare i modelli scritti dai grandi trecentisti. Alla teoria del Bembo si opposero altri letterari del tempo, come Nicolò Machiavelli con il suo famoso Discorso intorno alla lingua nostra[2], che sosteneva il fiorentino parlato e Vincenzo Colli[3] che proponeva il coiné delle corti.
Nel 1583 nacque l’Accademia della Crusca con il proposito di preparare un vocabolario che registrasse tutte le parole del fiorentino trecentesco, a partire dai testi degli autori maggiori e minori. Questo vocabolario uscì a Venezia nel gennaio del 1612. Durante i successivi duecento anni, si registreranno polemiche e contestazioni intorno al Vocabolario, dato che si tratta di un dizionario con termini arcaici e in disuso, rifiutando gli apporti della lingua che veniva parlata dal popolo in quel momento (ALBANESE&ALBANESE, 1986, p.9).
Nonostante queste vicende del volgare sul piano della letteratura, fino al seicento è rimasto in una posizione subalterna rispetto al latino, lingua della chiesa, dell’Amministrazione e della Giustizia. Per Albanese&Albanese questo è colegato alla questione per cui non c’era un’Italia unita come la Francia, ma diverse Corti ognuna con il proprio gergo: “Paese policentrico, l’Italia non aveva mai avuto una capitale come Parigi, che dava il “là” a tutto, anche alla lingua, dettandone il modello al resto della Francia” (idem, p. 10). Sarà dopo l’Unità d’Italia (1861) che verrà stabilito l’italiano come lingua ufficiale della penisola, sulla base della lingua dantesca e ne conseguirà un lungo cammino verso l’omologazione dell’italofonia nel territorio.
Le Prose della volgar lingua, edite nel 1525 e successivamente nel 1538, presentano conversazioni fra quattro nobili e colti interlocutori in tre giornate. Lo scenario del dialogo è una Venezia di molti anni prima. I personaggi sono Ercole Strozzi, che rappresenta la tradizione latina, Federigo Fregoso per la tradizione toscano-fiorentina, Giuliano de’ Medici per la fiorentina viva e Carlo Bembo (fratello di Pietro Bembo e portavoce delle sue tesi) per il classicismo volgare.
Le Prose della volgar lingua, edite nel 1525 e successivamente nel 1538, presentano conversazioni fra quattro nobili e colti interlocutori in tre giornate. Lo scenario del dialogo è una Venezia di molti anni prima. I personaggi sono Ercole Strozzi, che rappresenta la tradizione latina, Federigo Fregoso per la tradizione toscano-fiorentina, Giuliano de’ Medici per la fiorentina viva e Carlo Bembo (fratello di Pietro Bembo e portavoce delle sue tesi) per il classicismo volgare.
Un altro ponto sul cui basare la scelta di una buona lingua è il fatto di avere scrittori “illustri e ornati”. In questo aspetto, la lingua fiorentina si mette nel primo posto:
[1.XV.] E perciò che tanto sono le lingue belle e buone piú e meno l’una dell’altra, quanto elle piú o meno hanno illustri e onorati scrittori, sicuramente dire si può, messer Ercole, la fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l’altre volgari, che a nostro conoscimento pervengono, di gran lunga primiera.
Il centro della riforma bembiana è basarsi sulla tradizione imitando la lingua dei grandi scrittori del trecento: Petrarca per la poesia e Boccacio per la prosa. I modelli sono selezionati per i loro valori formali, morali e intellettuali e per essere riusciti a proiettare oltre il loro tempo ed essere considerati classici. Nel secondo libro, Bembo si riferisci ai grandi scrittori in lingua fiorentina, tra cui Dante, Petrarca e Boccacio, e sottolinea che i maggiori erano questi ultimi due:
[2.II] Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui piú lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresí molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell’una facultà e nell’altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar piú oltre, ma pure a questi termini giungere ancora niuno s’è veduto.
Per quanto riguarda l’opera di Dante, Bembo riconosce l’importanzza dello scrittore definendolo come “grande e magnifico poeta” che ha contribuito alla crescita del volgare letterario. Nonostante ciò, l’opera di Dante non viene tenuta come modello insieme a Petrarca e Boccacio. Nel suo testo “Bembo’s Attack on Dante” (2017) Ann Mullaney signala alcuni momenti delle Prose dove Bembo presenta critiche a Dante.
Per prima cosa, c’è il mutamento di stile d’accordo con il cambio nel linguaggio che si parlava nell’epoca. Le opere di Dante cambiarono in modo che potesse compiacere la gente del suo tempo (“secondo il mutamento della lingua si mutava egli, affine di poter piacere alle genti di quella stagione”, 1.17). Carlo Bembo si oppone insistendo sul fatto che gli scrittori dovrebbero sforzarsi di compiacere le persone che vivranno dopo di loro: Cicerone e Virgilio hanno scritto per persone istruite di tutte le età, e non per i cittadini del loro tempo (1.18). Un’altra critica ha che vedere con il lessico di Dante. Carlo insiste sul fatto che Dante sarebbe più famoso se avesse usato parole più “vaghe e piú onrate”. Finalmente, Dante viene spesso chiamato licenzioso e persino licenziosissimo (3.72) per le più piccole violazioni di uno standard linguistico.
Le conseguenze della riforma Bembiana sono molte e durature. Perrota (2011) afferma che il successo di Bembo portò una omogeneizzazione del codice letterario che, insieme alla spanzione della stampa, consente un allargamento del numero degli scriventi e dei lettori. Dall’altro, viene sancita definitivamente l’artificiosità elitaria della letteratura italiana “alta” e la sua totale separazione dalle forme di comunicazione contemporanea.
Bibliografia
ALBANESE, Carolina Massi; ALBANESE, Luciana. “La questione della língua italiana attraverso i secoli”. Revista Letras, vol. 35. Curitiba, 1986, p.3-16.
BEMBO, Pietro. Prose della Volgar Lingua. A cura di Carlo Dionisotti. Milano: TEA Tascabili Editori Associati, 1989.
BRUCKHARDT, Jacob. La Civilità del Rinascimento in Italia. Firenze: Sansoni, 1984, pp. 125-126;130-135.
DE MAURO, Tullio. Storia linguistica dell’Italia unita. Roma: Gius Laterza& Figli Spa, 1963.
DEVOTO, Giacomo. Il linguaggio d’Italia. Milan: Rizzoli, 1972.
MIRÓ MARTÍ, Oriol. “La reforma bembiana”. Revista Humanistica, An International Journal of Early Renaissance Studies, volume VIII, numero 1, Pisa, Roma: Fabrizio Serra Editore, 2013, p. 167-173.
MULLANEY, Ann. “Bembo’s Attack on Dante”. 2017.
PERROTTA, Annalisa. “Venezia capitale dell’esditoria” In. Il senso e le forme. Storia e antologia della letteratura italiana II. L’umanesimo e il rinascimento. Milano: La Nuova Italia, 2011.
SAPENGO, Maria Serena. “Umanesimo e Rinascimento” In. Il senso e le forme. Storia e antologia della letteratura italiana II. L’umanesimo e il rinascimento. Milano: La Nuova Italia, 2011.
[1] Leon Battista Alberti (Genova, 18 febbraio 1404 – Roma, 25 aprile 1472) è stato un architetto, scrittore, matematico, umanista, crittografo, linguista, filosofo, musicista e archeologo italiano; fu una delle figure artistiche più poliedriche del Rinascimento.
[2] Il Dialogo o Discorso intorno alla nostra lingua è un breve libro composto nel 1524 o 1525 in cui Niccolò Machiavelli, a partire dalla dimostrazione dell’origine fiorentina della lingua letteraria italiana, dovuta, secondo lui, alla superiorità della lingua di Firenze rispetto a quella della altre città italiane, giustifica il fatto che la lingua comune d’Italia debba essere chiamata “fiorentina” e non “italiana”.
[3] Vincenzo Colli (1460 – 1508) si dedicò all’approfondimento dello studio sulla lingua cortigiana elaborando la sua teoria che dimostra nei suoi testi “Nove libri della volgare poesia”, oggi andati perduti, “Annotazioni e iudìci” e nella nota “Vita di Serafino Aquilano” pubblicata a Bologna nel 1504.
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I have a degree in Spanish Linguistics and Literature, and I am currently continuing my career as a linguist doing research in Spanish grammar.
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